WHISKY AI CONFINI DEL MONDO
Il Giappone e le altre nazioni produttrici di Whisky
In principio fu il Giappone: se fino alla fine del ventesimo secolo, parlando di...
Il Sassicaia è un vino leggendario, un’eccellenza assoluta, basti pensare che la sera dell’addio al celibato festeggiato da Ivo, il suo ristorante di Venezia preferito, George Clooney ha scelto questo vino, un Sassicaia del 2011 per sé ed i suoi amici. Lungo è l’elenco dei vip che amano questo vino prodotto in un angolo di Toscana, tra cielo e mare.
Abbiamo incontrato il Marchese Nicolò Incisa della Rocchetta nella sua cantina all’inizio del viale che porta a Bolgheri di Carducciana memoria, uno dei luoghi più importanti dell’enologia italiana e quindi, mondiale.
La nascita di questo vino ha qualcosa di mitico, forse per le persone coinvolte, le intuizioni del Marchese Mario Incisa della Rocchetta, i tempi e le modalità dello sviluppo. Questi fattori hanno contribuito alla costruzione di un autentico mito.
Ai primi del Novecento l’Italia era un grande produttore di vino e un formidabile consumatore, si consumava all’epoca un litro a testa al giorno, privilegiando la quantità alla qualità. Mio padre ha sempre creduto, fin da studente, che questo fosse dovuto alla mancanza di volontà piuttosto che a problemi legati al clima o al terreno; quest’ultimi in Italia offrono più possibilità di quelli francesi, noi abbiamo un territorio ed un clima molto più variegati. Per decenni non abbiamo mai pensato ad uno sviluppo commerciale, mio padre lo produceva per uso privato. Il tutto iniziò quasi per una scommessa e per il gusto personale di mio padre, che era una persona dai molti interessi, rivolti all’allevamento dei cavalli, alla protezione dell’ambiente, ricordo che è stato tra i fondatori e il primo presidente del WWF italiano. Il fatto di iniziare la commercializzazione di questo vino lo ha sempre spaventato, credeva che questo lo avrebbe stravolto. Forse tutto questo ha giovato all’immagine del vino, per il quale non è mai stata fatta una campagna di promozione studiata a tavolino, tutto è accaduto gradualmente. I primi anni in pochi lo avevano conosciuto e assaggiato quindi può darsi che avesse un’aurea “misteriosa”. Questo imprinting, ovvero il fatto di essere stato prodotto per decenni per uso privato, resta ben presente ancora oggi. Il vino Sassicaia non segue le mode e non si modifica per cercare l’omologazione del gusto internazionale del momento, ma ogni annata cerca di essere uguale alla precedente.
Alla fine però la commercializzazione iniziò nel 1968 e nelle prime annate la produzione fu di sole 4 mila bottiglie. Furono molto bravi gli Antinori ai quali ci eravamo affidati, perché avevano molta più esperienza di noi ed in quel tempo avevano forse la migliore distribuzione a livello italiano e internazionale, perché in poco tempo fecero conoscere questo vino, che si è imposto per il suo stile, la sua profondità e non certo grazie a campagne pubblicitarie.
È vero che dopo l’arrivo di Giacomo Tachis, l’enologo degli Antinori, suo padre continuò a produrre un Sassicaia diciamo “alternativo” …
Lui lo chiamava “vino diverso” e addirittura Luigi Veronelli (uno dei più grandi giornalisti enoici italiani) lo esaltava a tal punto da affermare che fosse meglio del vino “ufficiale” imbottigliato dagli Antinori! Certamente differenze c’erano, come la macerazione nella vinificazione, e la quantità; quello che facevamo con gli Antinori erano 300 barriques, mentre mio padre ne faceva solo tre. L’esperimento durò poco tempo, furono fatte pochissime annate. Non escludo tuttavia, perché sarebbe molto interessante, di fare un confronto tra le stesse annate di Sassicaia imbottigliato a San Casciano dagli Antinori e il vino fatto da mio padre in maniera artigianale senza l’aiuto di un enologo. Sicuramente l’evoluzione è stata diversa, il processo produttivo di mio padre era assolutamente artigianale, però ne sono rimaste poche bottiglie.
Sarebbe un peccato aprirle, quasi un sacrilegio … Dunque rispetto ai primi fondamentali esperimenti di suo padre e agli anni successivi l’arrivo di Giacomo Tachis, dove i miglioramenti erano quotidiani e costanti, oggi quando si ha già un prodotto eccellente, dove si può intervenire, cosa si può ancora modificare per continuare a migliorare?
Tachis ha sempre detto io sono un winemaker, sono un custode di un prodotto generato dalla natura, il mio ruolo è quello di non rovinare il suo lavoro. Anch’io sono d’accordo, credo che oltre un certo limite si vada nella tecnologia pura e si svilisca il vino, togliendogli quel tanto o poco di personalità che il vino può avere.
Quindi possiamo dire che il lavoro in vigna rimane ancora il principale ambito di operatività?
Quando chiedemmo a Piero Antinori se erano interessati a distribuire questo vino, una delle ragioni era dovuta al fatto che nei primi anni Sessanta erano state piantate delle nuove vigne e la produzione di vino accumulato cominciava ad essere troppo per essere consumato in ambito familiare, quindi la necessità di servirci dell’ausilio di un enologo era per creare un vino che desse la garanzia di avere una certa stabilità negli anni. Mio padre era un appassionato di vino, ma non aveva mai fatto enologia per cui poteva anche essere prevenuto nell’utilizzare certi strumenti tecnici che invece sono necessari.
Ho letto in un’intervista di qualche tempo fa che vi sentite fieramente agricoltori e non speculatori. La vostra forza è appunto quella di essere sempre uguali a voi stessi, di mantenere questa tradizione che avete ereditato.
Mio padre aveva paura che con l’arrivo di Tachis, la tecnologia potesse stravolgere il suo vino, ma ciò non avvenne. I cambiamenti apportati furono principalmente in cantina, vennero introdotti i tini di acciaio, al posto dei tini in legno per la fermentazione. Questi ultimi erano aperti sopra e obbligavano a fare delle macerazioni brevi di 5-6 giorni per prevenire l’innalzamento dell’acidità volatile. Naturalmente ci fu un certo ammodernamento tecnologico generale, i nostri sistemi produttivi erano sempre quelli di 150 anni fa. La cosa di cui avemmo conferma e che non era scontata in partenza, fu proprio quella dell’affermazione delle caratteristiche particolari di questo ambiente, di questo terroir come lo chiamano i francesi. Quando mio padre impiantò nella seconda metà degli anni Quaranta le prime vigne portando le marze provenienti da una vecchia vigna di Migliarino, dove ospite dei Conti Salviati negli anni Venti si ricordava di aver assaggiato un vino molto buono, non venne fatta nessuna selezione. Nei primi impianti c’era un miscuglio di uvaggi; dal sangiovese, al trebbiano, con addirittura del colorino, eppure il risultato del vino fu importante. Per questo credo che il territorio di Bolgheri sia il principale fattore del successo, è stato l’elemento che ha fatto da subito la differenza.
Voi siete gli unici in Italia dal 1994 ad avere una vostra specifica DOC “Bolgheri Sassicaia”, proprio per sottolineare l’unicità di questo territorio.
Nel bene o nel male, quello che non hanno mai negato al Sassicaia è proprio questa unicità derivata dal territorio. Poi nel corso degli anni spesso il consumatore ha seguito mode e gusti internazionali, ed anche le guide a volte hanno seguito certe mode, però il nostro stile è sempre rimasto intatto; proprio quello stile che ha reso questo vino famoso e unico in tutto il mondo. All’inizio mi ricordo che le critiche dicevano che il Sassicaia era un’imitazione dei grandi bordolesi, perché con l’impianto delle nuove vigne nei primi anni Sessanta si decise di utilizzare cabernet sauvignon e cabernet franc, viti portate dalla Francia ma che in antichità furono portate in Francia dai romani. Certo poi i francesi sono molto più bravi di noi in certe cose! Quello che ripeto sempre è che mio padre è stato premiato per aver avuto l’intuizione che il vino italiano potesse essere portato almeno al livello di quello francese; è stato premiato per averci creduto e provato, perché non era affatto scontato che questo terreno si prestasse ad ottenere questi risultati. Noi non abbiamo inventato niente, abbiamo seguito i principi basilari della vinificazione di un certo livello; poi è vero noi siamo stati i primi ad introdurre l’uso della barrique che consente l’invecchiamento del vino in un volume ridotto, permettendogli di evolvere ed affinarsi in maniera migliore.
Invece a livello di consumatore e di mercati negli ultimi venti – trent’anni come è cambiato il panorama a livello internazionale, c’è più concorrenza?
Sì, c’è più concorrenza, ma anche più conoscenza. Prima di Veronelli che è stato il capostipite dei giornalisti enogastronomici e della conseguente evoluzione del gusto, la gente era meno abituata a bere certi tipi di vini, per cui si accontentava. Raccontava mio padre che negli anni Sessanta insieme ad un suo cugino che era andato a fargli visita aprirono una bottiglia bordolese uno Chateau Lafitte e lui gli chiese un’arancia da strizzarci dentro. Non esisteva una cultura che si è sviluppata successivamente nel corso degli anni e coincide con l’inizio della commercializzazione del Sassicaia, quindi non so se Veronelli influenzò il Sassicaia oppure è stato il Sassicaia ad influenzare Veronelli!
Poi sono arrivati gli anni Novanta e in Italia è cambiato tutto! Alcuni terreni di vigna in certe zone particolarmente vocate furono considerati dei veri e propri eldoradi. Inoltre il vino come argomento passò dall’essere un tema di conversazione di una nicchia di esperti o di bonne vivant al grande pubblico.
È vero, in Italia negli anni ’90 ci fu il boom, però questa cultura, questa conoscenza del vino è iniziata prima. In effetti però in quel decennio tutti si scoprirono intenditori, molti vollero diventare produttori; persone provenienti da altri settori. Però fino agli anni ’70 chi faceva il bello e il cattivo tempo in materia di vini erano gli inglesi; furono loro ad inventare Bordeaux! Bisogna sempre considerare l’Impero inglese con le colonie e soprattutto la lingua. Erano tempi in cui credevano che quando ritornava un bastimento carico di vino dalle colonie fosse particolarmente pregiato perché aveva passato due volte l’equatore. Nella seconda metà degli anni ’70 per noi un grande evento che contribuì notevolmente alla nostra conoscenza a livello internazionale fu una grande degustazione che si tenne a Londra nel ’77.
Questa è un’altra data storica per voi.
Esatto, fu forse la prima volta che un vino italiano veniva ammesso ad una grande degustazione internazionale e in un assaggio alla cieca il nostro Sassicaia fu considerato il miglior vino. Angelo Gaja una volta disse che il Sassicaia è stato il primo grande vino italiano a parlare una lingua straniera.
Il Sassicaia è un vino che non conosce crisi, oppure anche lui negli anni passati, durante il momento più acuto della crisi economica mondiale ha subito una flessione nelle vendite?
Forse dico un paradosso, ma quando c’è una crisi economica significativa, parallelamente comincia anche una più attenta selezione da parte dei consumatori. Una crisi che per molti significa flessione nelle vendite e quindi un danno economico, per noi e per i marchi più noti e consolidati vuol dire invece che il consumatore dovendo scegliere si orienta verso etichette che hanno un valore riconosciuto. Poi la crisi non è stata uguale in tutti i paesi, siamo noi in Italia che l’abbiamo sofferta più di altri. Negli USA e nel nord Europa la crisi è stata di diversa entità. Per quanto riguarda la produzione, ci possiamo riallacciare a quello che dicevamo prima, quando molti si sono improvvisati produttori. Nel campo agricolo quando si pianta una vigna non è che dopo tre anni la si può disfare, i tempi sono molto lunghi, bisogna andare avanti, gli investimenti non sono immediatamente remunerativi. Poi noi abbiamo seguito una politica commerciale controtendenza, mentre gli altri grandi produttori internazionali come ad esempio i francesi hanno continuato ad aumentare i prezzi noi non lo abbiamo fatto. Il Sassicaia ha sempre avuto un rapporto qualità prezzo ottimo.
Con i nuovi mercati emergenti, si sono avvicinati al Sassicaia anche consumatori culturalmente molto diversi rispetto a noi ed ai più tradizionali statunitensi e nordeuropei, che sono più affini alla nostra storia, alla nostra cultura. Questi nuovi consumatori cosa percepiscono in una bottiglia di Sassicaia, riescono a vederci tutta la sua storia, la sua tradizione, i suoi valori?
I consumatori internazionali viaggiano. Il mercato evolve di continuo e si affacciano consumatori da molti paesi, anche africani ad esempio. Il consumatore russo sceglie per principio i vini più cari, per una sorta di esibizionismo, però questo aspetto ci coinvolge marginalmente, ci sono altri vini, anche italiani, più cari del Sassicaia. Per noi è sempre stato molto importante cercare di essere presenti nel maggior numero di Paesi, anche con pochissime quantità, che a livello di fatturato incidono poco, ma lo abbiamo sempre ritenuto un vanto. Siamo presenti anche in alcune isole dei caraibi e nel sud-est asiatico; oggi siamo presenti in 87 Paesi. I nostri mercati di riferimento restano però gli Stati Uniti, l’Inghilterra e la Svizzera. Ques’ultima per noi è molto importante per un duplice motivo: il primo è che in proporzione al numero degli abitanti è il mercato più importante; in valori assoluti esportiamo in Svizzera la metà di bottiglie degli USA. Secondariamente, perché il consumatore elvetico è un ottimo conoscitore che non vuol essere preso in giro dagli improvvisatori o con vini esageratamente cari, sta molto attento al rapporto qualità prezzo. Poi adesso è più difficile capire chi è il consumatore finale rispetto a qualche anno fa, è più difficile seguire la destinazione finale delle nostre bottiglie, con internet, e le grandi enoteche internazionali, ad esempio parte del vino comprato in Inghilterra va in realtà in tutto il mondo.
E il mercato italiano quanto pesa ancora?
Noi abbiamo sempre seguito un principio che il nostro distributore mi aveva consigliato fin dall’inizio, ovvero di vendere almeno il 50% sul nostro territorio, adesso siamo circa ad un 40% Italia e 60% estero. Lo straniero vuol trovare l’eccellenza del Made in Italy quando viaggia in Italia, un prodotto italiano venduto solo all’estero secondo me perde di credibilità. Però riteniamo che la quota effettiva di prodotto che viene consumato in Italia sia intorno al 20%, il resto lo acquistano i viaggiatori o viene spedito dalle enoteche in tutto il mondo.
di Simone Gismondi
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