Sigaro Toscano

Nella Banda degli Onesti Antonio de Curtis nel tentativo di spacciare la prima diecimilalire falsa entra in una tabaccheria e chiede tre Toscani. “Mi rincresce i Toscani sono finiti” risponde il negoziante rigirandosi fra le dita la banconota. “Beh, allora mi dia una saponetta” chiosa Totò. E il gioco è fatto, la diecimilalire falsa è andata. Un film culto, un personaggio intramontabile, un oggetto – il sigaro – che custodisce in sé tutta la forza della disperazione, del coraggio, del desiderio di emergere. Un vigore che parte dalla terra, dai raccoglitori di foglie di Kentucky, su su fino ad arrampicarsi fra le mani d’oro delle sigaraie, donne operose, mute nell’infinito ripetersi di quelle gestualità che paiono poesia se ti soffermi ad osservarne i movimenti.

Lenti di antichi saperi, milioni di dita che li hanno afferrati, insieme rapide e inesorabili nello stendere, trinciare, arrotolare tabacco inumidito fino a farne piccoli cilindri sempre diversi. È l’unicità la loro forza, insieme alla storia partita da lontano che ha condotto fino a noi quel rametto di piacere meditato tanto caro a Garibaldi, Giuseppe Verdi, Pietro Mascagni, Giacomo Puccini, Mario Soldati, Marcello Mastroianni, Gianni Brera, Toni Servillo, Roberto Vecchioni, Paolo Sorrentino e anche Nada, Stefania Sandrelli, Nadia Rinaldi. L’elenco è pressoché senza fine perché non c’è amante del fumare lento che non apprezzi il sigaro Toscano. Che è poi un modo di vivere refrattario alle omologazioni, che ben conosce il valore di una personalità lontana dalla massa. “Ci sono alcuni oggetti che non sono semplice feticcio, ma assumono il ruolo di un comune denominatore di un’appartenenza intellettuale. Sono oggetti rari e magici, funi ai cui capi opposti si trovano persone che possono riconoscersi con uno sguardo – commenta Oliviero Toscani, autore delle bellissime immagini raccolte in Duecento anni Sigaro Toscano (Skira Ed.) “Il Toscano supera le barriere delle nazionalità, del ceto sociale, del sesso e della religione. Chiunque può permetterselo, e allora è bello capire che è nell’esaltazione delle differenze che si manifesta la più alta qualità dell’uomo; ed è bello constatare che tra i suoi fumatori c’è un senso comune dell’estetica, non intesa come percezione condivisa del gusto e dell’appartenenza ma come interfaccia di una filosofia morale, come etica di un’eleganza colta e ideale”. Anche se fu proprio l’andare verso la massa a fare la fortuna di questo ‘stortignaccolo’ mai uguale a se stesso.

Era infatti l’agosto 1815 quando una violenta alluvione allagò i magazzini della Manifattura fiorentina di via Guelfa, impregnando irrimediabilmente un’intera partita di tabacco Kentucky. Reso così inutilizzabile. Ma invece di darlo al macero, il direttore del primo nucleo produttivo (oggi sono tre: a Lucca, Foiano della Chiana dove avviene la selezione del tabacco e Cava de’ Tirreni) decise di tentare il tutto per tutto e gettare nella mischia un dettaglio fino a quel momento appannaggio di pochi. Saggia decisione, perché le foglie fermentate acquistarono un sapore del tutto nuovo che in mano al popolo fiorentino presero il largo e partirono alla conquista del mondo. “I manager e gli operai, gli industriali e i contadini, gli impiegati e gli artisti, gli artigiani e i filosofi lo fumano – prosegue il fotografo Oliviero Toscani – e quando si incrociano per strada il Toscano diventa come un occhiolino, un ammiccamento di complicità allegra. Possiamo allora dire che il Toscano è il trait d’union di una tribù che si sparpaglia in modo confuso sulla Terra, individui che hanno la fortuna di riconoscersi in un attimo quando si incontrano. E in quel momento i confini geografici ed economici vengono abbattuti”. Una storia che s’intreccia con quella delle sigaraie Quella del sigaro Toscano è una storia che parte duecento anni fa. Uno più uno meno. Era infatti il 1818 quando a Firenze aprì per la prima volta il portone di quelle che dal 2006 conosciamo come Manifatture Sigaro Toscano. In mezzo – fra noi e quel 1818 – corre storia scritta. Fu vessillo di disobbedienza civile per i Mazziniani durante le Cinque Giornate di Milano (1847), ricordiamo che gli Austriaci al tempo erano i principali importatori di sigari nel nostro Paese. Nel 1853 allo stabilimento di Firenze se ne affianca uno a Lucca, aperto in un antico ex convento di suore domenicane, in pieno centro. Da cui fu poi trasferito in un’area più funzionale (ma sempre nei dintorni di Lucca) nel 2014. Il 1860 (da lì a poco l’Italia sarebbe stata unita in uno Stato sovrano) è la data che sancisce l’ingresso delle donne all’interno delle Manifatture, pioniere del lavoro al femminile, depositarie di un successo che ancora si deve alla loro maestria. Agli esordi erano circa una ventina, suffragette fra le maestranze maschili, quando ancora i diritti erano dispari.

Dopo l’Unità d’Italia il loro numero crebbe a dismisura fino a toccare le 12mila unità nei primi del Novecento e le 16mila alla vigilia della Prima Guerra Mondiale. Inizialmente prestavano la loro opera a cottimo e dato che in tale modalità il tempo è più che denaro, le più brave riuscivano a confezionare anche tre sigari al minuto (circa 1200 al giorno), mentre oggi che a loro viene richiesta prima di tutto qualità, sono scese a 500. Il loro è un lavoro minuzioso – almeno quello a mano che interessa cinque tipologie di Toscano – dietro il quale sta il carattere di un sesso gentile che già nei primi anni del secolo scorso ottenne asili nido in fabbrica. Gestualità rimaste pressoché invariate da oltre 200 primavere, trasmesse spesso di madre in figlia, perché la loro pazienza e sensibilità ancora vengono ritenute valori inestimabili. Alla fine degli anni Quaranta la produzione abbandona definitivamente il capoluogo toscano a favore degli impianti di Lucca e Cava de’ Tirreni, dove si svolge ancora oggi. Con circa 210 milioni di pezzi venduti nel mondo, esportati in oltre 70 Paesi come simbolo di un Made in Italy che è già di per sé un brand, resi possibili da circa 250 tabacchicoltori dislocati fra Campania, Valdichiana, Valtiberina, Lazio e Veneto. Perché questo è un autentico prodotto italiano, a partire dalle foglie di Kentucky coltivate nelle aree più vocate della Penisola. Ciascuno di questi trastulli è un pezzo di Belpaese che parla un linguaggio unico: che sia un Garibaldi (il più venduto, nato nel 1982 per celebrare il centenario dalla morte dell’Eroe dei Due Mondi, uno dei maggiori estimatori), un Originale (per citarne qualcuno fra i realizzati a mano) o un Sementa (ricetta nata da una miscela di semi storici salvati durante un’endemia di peronospora del 1960, lanciato l’anno scorso in occasione dei festeggiamenti per il duecentenario di onorata carriera). Certo, la strada non è stata sempre facile. Ci sono state le lotte sindacali delle sigaraie, le annate in cui le piantagioni hanno consegnato raccolti pessimi e quindi sigari di basso valore.

Ma quel carattere coriaceo che ritroviamo nei personaggi ritratti in numerose pellicole da Sergio Leone e Francis Ford Coppola (grandi estimatori) ne ha fatto la differenza fino ai giorni nostri. Piegandosi di fronte alle avversità, magari, ma mai spezzandosi, ritrovando sempre uno spunto per riemergere con classe. Alla Burt Lancaster del Gattopardo di Luchino Visconti, giusto per citare qualche riferimento cinematografico in cui il Toscano è sì un dettaglio, ma di quelli che non passano inosservati. Alla Gassman nel Sorpasso di Dino Risi che con Trintignant dà un passaggio in Lancia ad un contadino che assaggia un Toscano. Alla Gino Cervi che con Fernandel (Don Camillo) ha dato vita all’intramontabile sindaco Peppone. Alla Nino Manfredi che nel Padre di Famiglia di Nanni Loy trova nel fumare consolazione dalla stanchezza. Alla Anthony Quinn di cavalleria Rusticana, alla Clint Eastwood che nei western di Sergio Leone aveva solo due espressioni: con e senza sigaro. Perché come scrive lo sceneggiatore e scrittore americano Paul Auster: la verità della storia è nei dettagli.

di Irene Arquint

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